ANTIMILITARISMO, NONVIOLENZA, PACIFISMO: CONCETTI CONTIGUI MA DISTINTI E NON INTERCAMBIABILI
Di Alfonso Navarra* – 8 gennaio 2024
I concetti di antimilitarismo, nonviolenza e pacifismo sono spesso usati in modo confusamente intercambiabile, ma presentano delle differenze concettuali non eludibili. Cerchiamo di chiarire le distinzioni principali, che sono non di poco conto.
In sintesi:
- L’antimilitarismo si oppone al militarismo e alle guerre, ma non necessariamente alla violenza in sé. Nella versione comunista è parte del rifiuto del capitalismo; nella versione anarchica è parte del rifiuto dello Stato.
- La nonviolenza, partendo dall’omogeneità del mezzo con il fine, postulata da Gandhi, rifiuta ogni forma di violenza e promuove metodi di lotta pacifici. La sua definizione, secondo lo scrivente, potrebbe essere: “la forza dell’unione popolare alla ricerca di verità e giustizia”. Ma anche in essa possiamo registrare diverse declinazioni. L’ultima versione teorico/pratica di rilievo è la nonviolenza pragmatica di Gene Sharp. La definizione da me proposta potrebbe essere riassunta nella formula: Gandhi+Sharp.
- Il pacifismo promuove la pace e la risoluzione nonviolenta dei conflitti, ma al suo interno comprende diverse posizioni sull’uso della violenza. Norberto Bobbio ha individuato tre forme principali: il pacifismo strumentale, il pacifismo istituzionale (o giuridico), il pacifismo etico.
È importante notare che questi tre concetti – antimilitarismo, nonviolenza e pacifismo – sono spesso interconnessi e si influenzano reciprocamente. Molti movimenti pacifisti sono anche antimilitaristi e adottano la nonviolenza come metodo di azione. Tuttavia, è utile distinguere le specificità di ciascun concetto per comprendere meglio le diverse sfumature e le diverse strategie di azione per la pace e la giustizia.
La Costituzione italiana, con il suo “ripudio della guerra” affermato nell’articolo 11, può essere considerata una espressione del pacifismo istituzionale-giuridico, quello che promuove la pace attraverso il diritto e le istituzioni internazionali. Non bisogna però dimenticare l’articolo 52: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge”.
La lotta degli obiettori di coscienza ha ottenuto, dalla Corte costituzionale, e quindi dalla normativa vigente, il riconoscimento del servizio civile come forma “equipollente” di difesa della Patria.
Antimilitarismo:
- L’antimilitarismo si focalizza sull’opposizione al militarismo, inteso come il sistema delle istituzioni dello Stato organizzato per l’uso delle armi nei conflitti umani, che esalta anche culturalmente la preparazione alla guerra e l’influenza delle varie forze armate sulla società.
- L’antimilitarismo può manifestarsi in diverse forme, tra cui l’obiezione di coscienza al servizio militare, la critica alle spese militari, la denuncia delle guerre e dei conflitti armati, la lotta contro la produzione e il commercio di armi.
- L’antimilitarismo non esclude, per principio, l’uso della violenza, ad esempio in caso di autodifesa sociale o di resistenza a un’occupazione militare. Alcuni movimenti antimilitaristi hanno fatto ricorso anche a forme di lotta armata nel corso della storia. L’antimilitarismo rivoluzionario prevede, infatti, la violenza diffusa di massa quando si tratta di spezzare la resistenza violenta delle vecchie classi dominanti che si intendono scacciare dalle posizioni di potere.
L’antimilitarismo comunista di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht
L’antimilitarismo dei due leader rivoluzionari, fondatori dello spartachismo comunista, era profondamente radicato nella analisi marxista del capitalismo e dell’imperialismo. Non era un pacifismo idealistico, ma una posizione politica che mirava alla trasformazione rivoluzionaria della società. L’elemento chiave che caratterizzava questo antimilitarismo, in “Rosa la Rossa” meglio precisato a livello teorico rispetto al suo compagno di lotta Karl Liebknecht, era il legame intrinseco tra militarismo e capitalismo.
- La Luxemburg sosteneva che la competizione tra le potenze capitalistiche per i mercati, le materie prime e le sfere d’influenza portava inevitabilmente alla corsa agli armamenti e alle guerre imperialiste. Il militarismo, quindi, non era un fenomeno isolato, ma una necessità per l’accumulazione capitalistica.
- La Luxemburg condannava fermamente le guerre imperialiste, considerate come strumenti di oppressione e sfruttamento dei popoli coloniali e come una fonte di immense sofferenze per la classe operaia di tutti i paesi coinvolti. Riteneva che la guerra non portasse alcun beneficio al proletariato, ma solo distruzione e miseria.
- Per Luxemburg, la lotta contro il militarismo e la guerra doveva essere condotta dalla classe operaia internazionale, unita nella lotta contro il capitalismo. Credeva che solo la rivoluzione proletaria, abbattendo il sistema capitalistico, avrebbe potuto eliminare le radici del militarismo e della guerra.
- La Luxemburg non si limitava a una critica teorica del militarismo, ma promuoveva l’azione diretta e di massa della classe operaia contro la guerra. Incoraggiava gli operai a scioperare, a disertare l’esercito e a opporsi con ogni mezzo alla mobilitazione bellica. Vedeva nello sciopero generale di massa un’arma potente contro la guerra.
- L’antimilitarismo di Luxemburg era profondamente internazionalista. Credeva che la lotta contro la guerra dovesse essere condotta a livello internazionale, con la solidarietà e la cooperazione tra i lavoratori di tutti i paesi. Sottolineava l’importanza dell’unità della classe operaia internazionale contro il nemico comune: il capitalismo.
- Con ogni evidenza, gli spartachisti non erano nonviolenti: ritenevano che in determinate circostanze, come in caso di difesa della rivoluzione o di lotta contro l’oppressione, l’uso della forza armata da parte del proletariato organizzato potesse essere necessario. Il loro obiettivo non era l’astensione dalla violenza in sé, ma l’abolizione delle condizioni che generano la violenza, ovvero il sistema capitalistico.
L’antimilitarismo comunista di Lenin
L’antimilitarismo di Lenin è molto simile a quello dello spartachismo sopra descritto e, storicamente, ne costituisce infatti l’ispirazione. Vi sono però alcune sottolineature particolari da esplicitare per quanto riguarda le posizioni del più grande rivoluzionario della Storia.
- La guerra come continuazione della politica con altri mezzi: Lenin riprese la famosa frase di Clausewitz, “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, per sottolineare come la guerra fosse sempre un atto politico, determinato da interessi di classe e da rapporti di potere. Di conseguenza, per Lenin, la lotta contro la guerra non poteva essere separata dalla lotta politica contro il capitalismo.
- La necessità della rivoluzione proletaria: Come Luxemburg, Lenin credeva che solo l’abbattimento del sistema capitalistico attraverso la rivoluzione proletaria avrebbe potuto eliminare le radici del militarismo e della guerra. La conquista del potere da parte della classe operaia e l’instaurazione del socialismo erano, per Lenin, le premesse necessarie per una pace duratura.
- Sfruttare la crisi bellica per la rivoluzione: Lenin non si limitava a condannare la guerra, ma sosteneva che la crisi bellica, con le sue sofferenze e le sue contraddizioni, potesse creare le condizioni favorevoli per la rivoluzione. In particolare, la Prima Guerra Mondiale, con le sue immense perdite umane e le sue difficoltà economiche, rappresentò per Lenin un’occasione storica per la presa del potere da parte del proletariato.
- Disfattismo rivoluzionario: In opposizione alla “difesa della patria” propugnata dai partiti socialdemocratici che avevano appoggiato i rispettivi governi allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Lenin propose la parola d’ordine del “disfattismo rivoluzionario”. Ciò significava che i rivoluzionari dovevano lavorare per la sconfitta del proprio governo nella guerra imperialista, al fine di trasformare la guerra imperialista in guerra civile e favorire la rivoluzione.
- Non pacifismo astratto: L’antimilitarismo di Lenin non era un pacifismo astratto o sentimentale. Lenin criticava i pacifisti borghesi che si limitavano a condannare la guerra in generale, senza analizzarne le cause economiche e sociali. Riteneva che la pace non potesse essere ottenuta con semplici appelli morali, ma solo attraverso la lotta di classe e la rivoluzione.
- Accettazione della guerra rivoluzionaria: A differenza di un pacifismo assoluto, Lenin non escludeva l’uso della forza che riteneva praticamente inevitabile per spezzare la resistenza violenta della classe borghese dominante. Ammetteva la necessità della “guerra rivoluzionaria” per difendere la rivoluzione proletaria dagli attacchi controrivoluzionari interni ed esterni. In questo senso, la sua posizione si differenziava da quella di pacifisti che rifiutavano ogni forma di violenza.
L’antimilitarismo anarchico
L’antimilitarismo anarchico e quello comunista, pur condividendo l’opposizione alla guerra e alle istituzioni militari, presentano differenze significative radicate nelle diverse concezioni ideologiche. Ecco le principali caratteristiche che distinguono l’antimilitarismo anarchico:
- Radicamento nella critica dello Stato: L’antimilitarismo anarchico è intrinsecamente legato alla critica dello Stato come istituzione coercitiva e autoritaria. Gli anarchici considerano lo Stato come la principale fonte di violenza e di oppressione, e quindi anche come la causa principale delle guerre. L’esercito, in quanto braccio armato dello Stato, è visto come uno strumento di dominio e di repressione.
- Rifiuto assoluto della violenza (in molte correnti): Molte correnti anarchiche, in particolare quelle influenzate dal pensiero di Tolstoj e di altri pensatori nonviolenti, promuovono il rifiuto assoluto di ogni forma di violenza. Questo si traduce in un pacifismo radicale e in un’opposizione all’uso della forza in qualsiasi circostanza, inclusa la difesa della rivoluzione. Altre correnti anarchiche, pur non escludendo completamente l’uso della violenza in situazioni estreme di autodifesa, pongono un forte accento sulla necessità di limitarla al minimo indispensabile.
- Azione diretta e autorganizzazione: Gli anarchici privilegiano l’azione diretta e l’autorganizzazione delle masse come strumenti di lotta contro il militarismo e la guerra. Incoraggiano la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, il sabotaggio delle industrie belliche e altre forme di resistenza nonviolenta. Ripudiano la partecipazione alle istituzioni statali, inclusi gli eserciti, anche quelli rivoluzionari.
- Internazionalismo e antimilitarismo popolare: L’antimilitarismo anarchico è profondamente internazionalista e si basa sulla solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi. Promuove la creazione di reti di resistenza antimilitarista a livello internazionale e incoraggia la diserzione e la fraternizzazione tra i soldati di diversi eserciti. L’enfasi è posta sulla lotta dal basso, attraverso la mobilitazione popolare e l’azione diretta.
- Critica al militarismo come mentalità: L’antimilitarismo anarchico non si limita alla critica delle istituzioni militari, ma si estende a una critica del militarismo come mentalità e come cultura che permea la società. Denuncia la glorificazione della guerra, l’esaltazione della forza e la cultura della violenza.
L’antimilitarismo comunista si distingue da esso per le seguenti caratteristiche:
- Centralità del partito e dello Stato (nel marxismo-leninismo): Nel marxismo-leninismo, il partito comunista e lo Stato proletario assumono un ruolo centrale nella lotta contro il militarismo e la guerra. Il partito guida la classe operaia nella rivoluzione e lo Stato organizza la difesa del nuovo ordine sociale. L’esercito rivoluzionario è uno strumento dello Stato proletario.
- Utilizzo della crisi bellica per la rivoluzione: I comunisti, in particolare Lenin, ritenevano che le crisi belliche potessero creare le condizioni favorevoli per la rivoluzione, indebolendo i governi capitalisti e radicalizzando le masse. In questo senso, la guerra, pur essendo un male, poteva essere “sfruttata” per accelerare il processo rivoluzionario.
- Antimilitarismo legato alla strategia politica: L’antimilitarismo comunista è spesso legato a una strategia politica specifica, che può prevedere la partecipazione alle istituzioni statali, la creazione di organizzazioni di massa e l’utilizzo di diverse forme di lotta, inclusa la lotta armata.
L’antimilitarismo di Carlo Cassola, fondatore della LEGA PER IL DISARMO UNILATERALE
L’antimilitarismo del grande scrittore Carlo Cassola, coinvolto nella Resistenza partigiana, è una parte fondamentale del suo pensiero e del suo impegno civile, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Ecco cosa proponeva:
- Pacifismo radicale: Cassola promuoveva un pacifismo che si opponeva a qualsiasi forma di organizzazione militare, senza distinzioni. Non si limitava a condannare le guerre in atto, ma rifiutava l’infrastruttura stessa della guerra.
- Disarmo unilaterale: Una delle sue proposte più forti era il disarmo unilaterale, ovvero la scelta di un paese di rinunciare alle armi, indipendentemente dalle decisioni degli altri stati. Cassola credeva che questo gesto potesse innescare un processo di disarmo a livello globale e favorire la distensione tra le nazioni.
- Critica alla corsa agli armamenti nucleari: Cassola si oppose con forza alla corsa agli armamenti nucleari, considerandola una minaccia per l’umanità. Sottolineava il rischio di una catastrofe atomica e la necessità di un disarmo totale in questo settore.
- Impegno attivo: Cassola non si limitò a esprimere le sue idee attraverso i suoi scritti, ma si impegnò attivamente in campagne contro le armi nucleari e il militarismo. Fu il fondatore della Lega per il disarmo unilaterale (ne sono l’attuale segretario mentre la presidente è Pola Natali) e partecipò a numerose iniziative per la pace.
- Riflessione sulle conseguenze della guerra: Oltre agli aspetti politici e strategici, Cassola rifletté anche sulle conseguenze psicologiche e sociali della guerra, evidenziando le devastazioni che essa provoca negli individui e nelle comunità.
In sintesi, l’antimilitarismo di Carlo Cassola era un invito alla costruzione di un mondo senza guerre, basato sulla nonviolenza, sul disarmo e sul rispetto per la vita umana e – ecologista ante litteram – per tutto l’ordine e la bellezza della Natura.
Per approfondire il pensiero di Carlo Cassola sull’antimilitarismo, ti consiglio di consultare le seguenti fonti:
- Articoli e saggi di Carlo Cassola: In particolare, i suoi scritti degli anni ’70 e ’80, come “Il gigante cieco” (1976), “La lezione della storia” (1978), “Letteratura e disarmo” (1978), “Contro le armi” (1980) e “La rivoluzione disarmista” (1983).
Nonviolenza:
- La nonviolenza è un principio etico e una strategia di azione che rifiuta tendenzialmente l’uso della violenza in qualsiasi forma e in qualsiasi circostanza. La nonviolenza può articolarsi in diverse espressioni a seconda delle eccezioni contemplabili in uno stato di necessità. Il postulato cardine è l’omogeneità tra mezzi e fini nell’azione,
- La nonviolenza si basa su metodi di lotta nonviolenti, come la disobbedienza civile, la resistenza della non collaborazione attiva di massa, il boicottaggio, le manifestazioni pacifiche, il dialogo e la mediazione.
- La nonviolenza esclude categoricamente l’uso della violenza, sia fisica che verbale o psicologica. Si basa sulla convinzione che la violenza genera altra violenza e che solo attraverso metodi pacifici è possibile costruire una società giusta e pacifica.
La distinzione tra nonviolenza del debole e nonviolenza del forte secondo Gandhi
Secondo Gandhi, la nonviolenza non è semplicemente l’assenza di violenza fisica, ma una forza attiva, una “forza dell’anima” (Satyagraha) che richiede grande coraggio e convinzione. Egli distingueva tra due tipi di nonviolenza: la nonviolenza del debole e la nonviolenza del forte.
Nonviolenza del debole (o passiva):
- È la nonviolenza di chi non ha la forza fisica o i mezzi per resistere con la violenza. È una nonviolenza di ripiego, una scelta obbligata dalla mancanza di alternative.
- Può essere motivata dalla paura, dalla rassegnazione o dall’opportunismo.
- Non trasforma l’avversario e non risolve il conflitto alla radice. Può portare a una tregua temporanea, ma non a una vera pace.
- Gandhi la considerava inferiore alla nonviolenza del forte, pur riconoscendone un valore transitorio in determinate situazioni.
Nonviolenza del forte (o attiva):
- È la nonviolenza di chi ha la capacità di usare la violenza, ma sceglie deliberatamente di non farlo, per motivi etici e morali.
- È basata sulla convinzione che l’amore e la verità siano forze più potenti della violenza e che possano trasformare anche il cuore dell’avversario.
- Richiede grande coraggio, forza d’animo, disciplina interiore e fede nella giustizia della propria causa.
- È una forza attiva che si manifesta attraverso la resistenza nonviolenta, la disobbedienza civile, il dialogo, la persuasione e il sacrificio di sé.
- Mira a convertire l’avversario, a fargli comprendere l’ingiustizia che sta commettendo e a portarlo a cambiare atteggiamento.
- Gandhi la considerava l’unica vera forma di nonviolenza, capace di generare un cambiamento duraturo e di costruire una società pacifica e giusta.
- Un esempio di nonviolenza del debole potrebbe essere un gruppo di persone disarmate che si arrendono di fronte a un esercito armato, semplicemente perché non hanno altra scelta.
- Un esempio di nonviolenza del forte è la lotta di Gandhi per l’indipendenza dell’India, basata sulla disobbedienza civile di massa, sul boicottaggio delle merci britanniche e su altre forme di resistenza nonviolenta. Gandhi e i suoi seguaci erano disposti a subire violenze e arresti pur di non ricorrere alla violenza.
Gandhi sosteneva che la nonviolenza del forte è accessibile a tutti, indipendentemente dalla forza fisica o dalla posizione sociale. Richiede solo una ferma volontà, una profonda fede nella verità e la capacità di amare anche i propri nemici. Questa forma di nonviolenza, secondo Gandhi, è l’unica via per raggiungere una pace duratura e una vera giustizia sociale.
Inoltre, è importante sottolineare che per Gandhi la nonviolenza non era sinonimo di passività o di sottomissione. Al contrario, richiedeva grande attività, energia e determinazione. Era una forma di lotta attiva, che mirava a trasformare la realtà attraverso la forza della verità e dell’amore.
La nonviolenza pragmatica secondo Gene Sharp
Gene Sharp è stato un politologo statunitense considerato uno dei massimi esperti mondiali di azione nonviolenta. A differenza di Gandhi, che basava la sua nonviolenza su principi etici e religiosi, Sharp ha sviluppato un approccio pragmatico, concentrandosi sull’efficacia dell’azione nonviolenta come strumento di lotta politica.
Ecco le caratteristiche principali della nonviolenza pragmatica di Gene Sharp:
- Tecnica di lotta: Sharp considera l’azione nonviolenta come una tecnica per condurre conflitti, al pari della guerra, della guerriglia o del dibattito parlamentare. Non è quindi una filosofia di vita o un ideale morale, ma uno strumento pratico per raggiungere obiettivi politici.
- Focus sull’efficacia: L’obiettivo principale di Sharp è studiare e analizzare le tecniche di azione nonviolenta per renderle più efficaci. Si concentra su come la nonviolenza possa essere utilizzata per esercitare potere, influenzare l’avversario e ottenere cambiamenti politici.
- Analisi storica: Sharp ha condotto un’ampia ricerca storica sulle lotte nonviolente in tutto il mondo, identificando centinaia di metodi specifici di azione nonviolenta, raggruppati in diverse categorie (proteste e persuasioni nonviolente, non-cooperazione sociale, economica e politica, intervento nonviolento). Questa analisi storica gli ha permesso di studiare i punti di forza e di debolezza delle diverse tecniche e di fornire una base empirica per la sua teoria.
- Potere dal basso: Sharp sottolinea l’importanza del potere dal basso, che deriva dalla capacità delle persone di ritirare il proprio consenso e la propria cooperazione al regime o all’istituzione che si vuole contestare. L’azione nonviolenta mira a erodere le fonti di potere dell’avversario, rendendolo incapace di governare o di imporre la propria volontà.
- Strategia e pianificazione: Sharp insiste sulla necessità di una strategia e di una pianificazione accurata per le campagne di azione nonviolenta. Non si tratta di reazioni spontanee o emotive, ma di azioni deliberate e coordinate, basate su un’analisi della situazione e degli obiettivi da raggiungere.
- Non pacifismo ideologico: Sharp non è un pacifista ideologico. Non esclude l’uso della violenza in tutte le circostanze, ma ritiene che l’azione nonviolenta possa essere una scelta più efficace e meno costosa in molti conflitti. Il suo approccio è quindi pragmatico e non dogmatico.
- Accettazione del conflitto: A differenza di alcune interpretazioni della nonviolenza che mirano all’armonia e alla conciliazione a tutti i costi, Sharp riconosce il ruolo del conflitto come motore di cambiamento sociale. L’azione nonviolenta non nega il conflitto, ma cerca di condurlo con mezzi diversi dalla violenza.
In sintesi, la nonviolenza pragmatica di Gene Sharp si caratterizza per:
- Essere una tecnica di lotta politica.
- Concentrarsi sull’efficacia e sui risultati.
- Basarsi su un’analisi storica e su una classificazione dei metodi di azione nonviolenta.
- Enfatizzare il potere dal basso e la necessità di una strategia.
- Non essere un pacifismo ideologico, ma un approccio pragmatico alla risoluzione dei conflitti.
L’opera di Sharp ha avuto una grande influenza sui movimenti nonviolenti in tutto il mondo, fornendo loro un quadro teorico e pratico per organizzare e condurre campagne di resistenza civile. Il suo lavoro ha contribuito a diffondere la consapevolezza del potenziale dell’azione nonviolenta come strumento di cambiamento sociale e politico.
È importante sottolineare che, mentre Gandhi poneva l’accento sulla trasformazione interiore e sulla conversione dell’avversario attraverso l’amore, Sharp si concentra maggiormente sugli aspetti strategici e tattici dell’azione nonviolenta, mirando a ottenere risultati concreti sul piano politico. Entrambi gli approcci, pur diversi, hanno contribuito in modo significativo alla teoria e alla pratica della nonviolenza.
Pacifismo:
Il pacifismo è un movimento ideale e politico che promuove la pace e la risoluzione nonviolenta dei conflitti. Si impegna per la prevenzione delle guerre, il disarmo, la cooperazione internazionale, la promozione dei diritti umani e la costruzione di una cultura di pace. Generalmente rifiuta la violenza, ma al suo interno esistono diverse correnti di pensiero. Alcune correnti pacifiste abbracciano la nonviolenza come principio assoluto, mentre altre possono accettare l’uso limitato della forza in situazioni estreme, ad esempio per interventi umanitari o per legittima difesa.
Le tre forme del pacifismo secondo Norberto Bobbio
Norberto Bobbio, filosofo e politologo italiano, ha analizzato il pacifismo distinguendo tre forme principali, basate sul diverso approccio al problema della guerra e della pace. Queste tre forme non sono necessariamente esclusive l’una dell’altra, ma rappresentano diverse accentuazioni e strategie.
- Pacifismo strumentale:
- Focus sui mezzi: Questo tipo di pacifismo si concentra sui mezzi utilizzati per fare la guerra, cercando di limitarne la distruttività e la violenza. Mira a rendere la guerra “meno crudele” attraverso la proibizione di certe armi (ad esempio, le armi chimiche o batteriologiche), la definizione di regole di condotta per i combattenti (il diritto bellico) e la protezione dei civili.
- Obiettivo limitato: Non mira all’abolizione totale della guerra, ma alla sua “umanizzazione”, cercando di contenerne gli effetti più devastanti.
- Esempio storico: Le convenzioni internazionali sulla guerra, come le Convenzioni di Ginevra, rientrano in questa categoria. Ma anche le costituzioni di Paesi come l’Italia.
- Pacifismo istituzionale (o giuridico):
- Focus sulle istituzioni: Questo pacifismo si concentra sulla creazione di istituzioni internazionali capaci di prevenire e risolvere i conflitti tra gli Stati attraverso mezzi pacifici. Propone la creazione di un “terzo” al di sopra delle parti in conflitto, un’autorità sovranazionale dotata di poteri coercitivi e giurisdizionali in grado di imporre il rispetto del diritto internazionale e di dirimere le controversie.
- Obiettivo: La creazione di un ordinamento giuridico internazionale che regoli i rapporti tra gli Stati e che offra strumenti di arbitrato e di giustizia per risolvere pacificamente le controversie.
- Esempio storico: L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), pur con i suoi limiti, rappresenta un tentativo di realizzare questo tipo di pacifismo. Bobbio stesso, insieme a Hans Kelsen, è stato un sostenitore di questa forma di pacifismo, auspicando un rafforzamento delle istituzioni internazionali e del diritto internazionale.
- Analogia domestica: Bobbio utilizza l’analogia domestica per spiegare questo tipo di pacifismo. Come all’interno di uno Stato il diritto e le istituzioni (tribunali, forze di polizia) mantengono la pace tra i cittadini, così a livello internazionale un ordinamento giuridico e istituzioni sovranazionali potrebbero garantire la pace tra gli Stati.
- Pacifismo finalistico (o etico):
- Focus sull’uomo: Questo pacifismo si concentra sulla trasformazione dell’uomo, sulla sua educazione alla pace e sulla diffusione di valori di nonviolenza, tolleranza e rispetto per la vita umana. Crede che la guerra sia il prodotto di una mentalità violenta e che solo un cambiamento profondo nella coscienza degli individui possa portare alla sua eliminazione.
- Obiettivo ultimo: La creazione di una cultura di pace, basata sulla convinzione che la guerra sia un male assoluto e che la pace sia un valore supremo.
- Esempio storico: I movimenti pacifisti che si basano sulla nonviolenza attiva, secondo la schematizzazione di bobbio, rientrerebbero in questa categoria. Anche le iniziative di educazione alla pace e di promozione dei diritti umani contribuiscono a questo tipo di pacifismo.
- Aspetti critici: Bobbio riconosce la nobiltà di questo ideale, ma ne sottolinea anche la difficoltà di realizzazione, poiché richiede un cambiamento profondo e duraturo nella mentalità umana.
Rapporto tra le tre forme:
Bobbio non considera queste tre forme come alternative esclusive, ma piuttosto come complementari. Ritiene che un pacifismo efficace debba tener conto di tutti e tre gli aspetti: limitare la violenza della guerra (strumentale), creare istituzioni internazionali per prevenire i conflitti (istituzionale) e promuovere una cultura di pace (finalistico).
In sintesi:
- Pacifismo strumentale: Agisce sui mezzi della guerra.
- Pacifismo istituzionale: Agisce sulle istituzioni che regolano i rapporti tra gli Stati.
- Pacifismo finalistico: Agisce sull’uomo e sulla sua mentalità.
È importante notare che, secondo Bobbio, il pacifismo istituzionale rappresenta la forma più realistica e praticabile nel contesto attuale, poiché offre strumenti concreti per prevenire e risolvere i conflitti internazionali. Tuttavia, riconosce anche l’importanza delle altre due forme, che contribuiscono a creare un contesto più favorevole alla pace.
Una definizione su cui riflettere è quella proposta da Alfonso Navarra, antimilitarista nonviolento “storico”, che sintetizza alcune formulazioni di Papa Francesco: “La nonviolenza efficace è rappresentata dai progressi nel diritto internazionale”.
Oggi non sono più concepibili “guerre giuste”
Sullo striscione che, come Disarmisti esigenti & partners, dal 5 novembre 2022, portiamo in piazza a Roma ogniqualvolta governo e Parlamento decidono gli aiuti militari a Kiev, si riporta, appunto, l’importante detto, che già citato, di Papa Francesco: «Oggi non esistono guerre giuste». Ecco le altre frasi riportate sullo striscione, in cui campeggia la scritta «NONVIOLENZA»: «Fermate subito i combattimenti, intervenga l’ONU per negoziare una tregua e prevenire una escalation nucleare». Ancora: «Custodiamo, esseri umani cooperanti, la Terra sofferente». E ovviamente: «Riconvochiamoci, quando si vota in Parlamento, per protestare contro l’invio di nuove armi all’esercito ucraino».
Lo striscione era accompagnato da un volantino. Lo distribuiamo ancora oggi, immutato da più di un anno, dopo essere scesi a digiunare e presidiare nei momenti in cui sono stati reiterati i “decreti legge ombrello” e gli otto pacchetti di aiuti militari da essi autorizzati tramite Dpcm amministrativi scavalcanti il Parlamento.
«Le armi tacciano, perciò non siano apparecchiate per chi dà loro la parola. Non le si fornisca, da parte dell’Italia, ai russi e nemmeno le si fornisca all’esercito ucraino, che non siamo affatto obbligati a sostenere se vogliamo sostenere il popolo ucraino. La differenza, ci segnalano i sondaggi, il popolo italiano l’ha colta, quando per il 75% manifesta contrarietà al coinvolgimento armato anche indiretto dell’Italia nella guerra in corso. (…) Non vogliamo alimentare il mostro orrendo della guerra. Non un cannone, non un soldo, non un soldato per essa! L’umanità deve porre fine alle guerre o saranno le guerre, sarà questa guerra, a porre fine all’umanità! (…) Siamo in piazza con lo spirito di dare innanzitutto voce alla maggioranza inascoltata del popolo italiano: stop, appunto, all’invio delle armi, fine delle sanzioni, disarmo atomico a partire dalla ratifica del Trattato di proibizione delle armi nucleari con il conseguente ritiro dalla condivisione nucleare NATO, apertura di spazi percorribili per la soluzione politica della guerra in Ucraina, immediata connessione tra “fine del mese” e “fine del mondo”. La lotta alla guerra, in parole povere, va agganciata alle conseguenze in termini di crisi economica e deterioramento delle condizioni di esistenza, carovita e carobollette, crisi energetica e crisi alimentare».
Quali sono i motivi per cui la “giustizia” oggi, ammesso che mai lo sia stata in passato, non ha nulla più a che fare con la guerra? Per cui, ad esempio dal punto di vista della tradizionale dottrina cattolica elaborata da Sant’Agostino nel IV secolo, non si può mai considerare la guerra uno strumento applicabile secondo il criterio della proporzionalità (pur ammettendo “una giusta causa, un intento corretto, un uso delle armi come ultima risorsa, una ragionevole speranza di successo nell’attacco”)?
Ne richiamiamo due principali.
Primo. Qualsiasi impiego di armi oggi, stante il loro sviluppo tecnologico e le loro modalità di impiego, danneggia più gli innocenti civili estranei che gli implicati direttamente nel conflitto, e danneggia la Terra, cioè il corpo vivente di tutti gli umani.
Secondo. Non possiamo non sapere, oggi, che esiste l’alternativa efficace dei metodi di resistenza nonviolenta.
Guerra mai giusta. Autodifesa armata a volte necessaria.
Papa Francesco, partendo da questa condanna di tutte le guerre, che di per sé sarebbero tutte sbagliate, poi è arrivato a questa elaborazione che, noi attivisti disarmisti, avevamo già ben masticato e digerito. La guerra non è mai “giusta” ma può talvolta essere “necessaria” una legittima difesa. Anche armata, in talune circostanze, quando ci si trova, senza averlo potuto prevenire, in uno “stato di necessità”. Che in questo articolo ovviamente intendiamo in un senso più generale (e generico), adattato a grandi contesti e non a rapporti privati, rispetto a quanto si può ad esempio ricavare dalla giurisprudenza italiana con riferimento all’art. 54 del codice penale. Cioè, guardiamo a una situazione di emergenza che, per tutelare la salute, la vita o la sicurezza di una collettività sotto minaccia reale o credibilmente putativa, esige una reazione al di fuori delle normali regole giuridiche e comportamentali.
Questa formulazione, che può sembrare a prima vista contraddittoria, non è proprio – a ben guardare – il contrario della giustificazione della guerra?
La contraddizione è infatti rimuovibile se si sa distinguere tra resistenza armata in forma di guerra, risposta militare temporanea ad una aggressione armata in atto e resistenza armata in forma di guerriglia. Mai la legittima difesa, dettata da uno stato di necessità, che talvolta può essere costretta ad assumere la forma di una resistenza armata, nella modalità ad esempio di una guerriglia, deve essere esercitata nella forma, nella modalità della guerra permanente ad alta intensità!
La differenza tra guerra e guerriglia.
Con l’aiuto del generale Fabio Mini possiamo riuscire a inquadrare la differenza tra guerra e guerriglia. Il generale Mini è un esperto di forme belliche e ha scritto diversi libri sull’argomento, tra cui La guerra spiegata a… e Che guerra sarà. La differenza tra guerra e guerriglia è che la guerra è un conflitto armato tra due o più belligeranti che si affrontano in modo convenzionale, con truppe regolari, armi pesanti e strategie definite, mentre la guerriglia è una forma di lotta armata condotta da parte di gruppi irregolari che evitano scontri diretti con il nemico e preferiscono attacchi improvvisi, sabotaggi e azioni di disturbo, sfruttando la mobilità, la conoscenza del territorio e il sostegno della popolazione locale (di cui può essere diretta espressione).
Ovviamente per rendere meno drammatiche le opzioni che si presentano nello stato di necessità, cioè impiego dell’esercito in funzione temporanea di risposta a una aggressione militare in atto, ricorso alla guerriglia, mobilitazione popolare disarmata alla Primavera di Praga, bisogna creare un contesto politico-sociale migliore con l’azione preventiva.
La legittima difesa avrà tanta più possibilità di essere esercitata in una modalità nonviolenta efficace quanto più si sarà preparato prima il terreno a indebolire le strutture del sistema di guerra.
Agire in via preventiva per evitare le guerre
Tutto ciò tenendo bene a mente l’analisi operata da Marco Deriu, che – citando lo storico americano Gabriel Kolko – argomenta sull’impossibilità del controllo razionale e pianificato della violenza e della guerra. La critica della Hybris dei governanti è sviluppata nel suo articolo, pubblicato nella rivista online Quaderni della decrescita, n.0/1, settembre dicembre 2023, intitolato: “Demilitarizzare il nostro immaginario (e prendersi cura della vulnerabilità reciproca)”.
La lotta alla guerra si fa innanzitutto con la prevenzione – una strategia ed una azione preventive – che combatte il sistema di guerra e radica, con il programma costruttivo, l’alternativa di una società strutturalmente pacifica.
La prevenzione deve evitare che si presentino crisi in forma drammatica, e comunque permette di gestire queste crisi con un alto tasso di risposta nonviolenta.
Per questo la prevenzione, oltre a una politica estera pacifica che oggi deve puntare a una cooperazione internazionale sui problemi globali della umanità con spirito di giustizia e di “terrestrità”, deve anche consistere nella “difesa popolare nonviolenta”, da predisporre e organizzare immediatamente già in tempo di pace.
Il servizio civile per la difesa nonviolenta
Lo strumento principale di questa prevenzione è un servizio civile giovanile orientato alla promozione della difesa civile non armata e nonviolenta.
Non lavorare su come è stata distorta la nostra conquista, di antimilitaristi e disarmisti organizzati nella Lega obiettori di coscienza, del servizio civile, per raddrizzare la sua situazione “degenerata”: ecco una espressione del massimalismo parolaio da “guerra alla guerra” (che magari finisce con il votare i crediti di guerra!), con cui abbiamo da fare i conti in maniera ricorrente, che poi rende la forza della nonviolenza inefficace nelle concrete circostanze storiche…
* COORDINATORE DEI DISARMISTI ESIGENTI. ARTICOLO REDATTO CON L’AIUTO DI GEMINI