PER FARE VERI PROGRESSI NELLA LOTTA CONTRO IL RISCALDAMENTO GLOBALE SERVE UNA OPINIONE PUBBLICA PIU’ SENSIBILE E MOBILITATA
Di Alfonso Navarra (23-11-2024)
Nell’anno più caldo di sempre, in linguaggio calcistico si direbbe oltre i tempi regolamentari, è stato raggiunto, soprattutto sul punto centrale della finanza climatica, un deludente compromesso alla COP29 di Baku: 300 miliardi di dollari fissati di aiuti dei “ricchi” per le riduzioni della CO2 dei “poveri” su 500 richiesti da questi ultimi (1.300 sulla base di rapporti scientifici.) Ma fino all’ultimo si è temuto addirittura un nulla di fatto, per via delle divergenze, soprattutto tra i Paesi sviluppati, rappresentati dalla UE, e Paesi in via di sviluppo, rappresentati dalla Cina (dietro le quinte). Senza una grande attenzione mediatica, i lavori che dovevano concludersi il 22 novembre, si sono invece prolungati di 24 ore, terminando il 23 novembre. La scontentezza degli ecologisti è grande perché è difficile riferirsi all’ambizione quando sono state rispolverate le fonti fossili che sembravano essere state messe al bando dalla COP28 di Dubai.
I disastri di Valencia, insomma, non hanno portato consiglio, né in alto né in basso, e ancora non c’è un allarme adeguato per l’aumento della temperatura media oltre la soglia di 1,5°C. La neutralità delle emissioni al 2050 a questo punto appare un miraggio persino in Europa, dove la sensibilità sul Green (spesso una retorica) ha preso piede più che altrove. Il consumo delle fossili va a manetta e siamo al record dell’inquinamento. Sempre più territori sconvolti da calamità varie soffrono, ma gli elettori, più attenti alle tasche che non alla salute dell’ambiente (e propria), premiano i gradualisti dalle mille ragioni, alcune giustificate, altre solo corporative, se non i negazionisti del clima.
Le Conferenze delle Parti (COP), organizzate dall’ONU, sono eventi cruciali per la cooperazione internazionale sulla lotta ai cambiamenti climatici, che si basano sull’accordo stabilito nel 2015 alla COP21 di Parigi. Le decisioni prese in questi contesti hanno un impatto globale significativo, e raggiungere un consenso tra quasi 200 Paesi con interessi divergenti è un compito sì necessario, ma anche estremamente arduo, che diventa ancora più complicato quando il Paese ospitante, l’Azerbaigian, ha il PIL che dipende quasi interamente dal petrolio. Abbiamo più volte, in questo diario, richiamato la battuta del presidente Dracula messo a capo dell’organismo per la donazione del sangue.
Nel punto centrale sulla finanza climatica, i Paesi ricchi si sono impegnati, per aumentare gli aiuti climatici ai Paesi in via di sviluppo, a fornire 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Si parla di rappresentanza europea per la categoria degli Stati sviluppati, perché appare chiaro che, data l’assenza dei pezzi grossi americani e cinesi, con Trump che ha già dichiarato che uscirà di nuovo dagli accordi di Parigi, sono stati soprattutto gli inviati di Bruxelles a gestire, da un lato, la continuità del percorso, difendendo il Green Deal e gli obiettivi della decarbonizzazione; e, dall’altro, a confrontarsi con le richieste dei Paesi in via di sviluppo. Ma è una UE che si presenta fragile e poco determinata, con la tendenza a dirottare verso una economia di guerra e con una Commissione che ancora sta cercando il voto di fiducia.
Si è già citata la decisione fondamentale della COP29, cioé per la decarbonizzazione dei PVS, che sarà formalmente gestito attraverso un approccio multilaterale. I Paesi sviluppati forniranno sia contributi pubblici a fondo perduto che prestiti da banche multilaterali di sviluppo e banche private. Poi abbiamo altre decisioni chiave, tra le quali spicca l’istituzione del Mercato internazionale del carbonio.
Altra decisione chiave, dopo fondo per la decarbonizzazione dei PVS e mercato internazionale delle emissioni: il Fondo per le perdite e i danni, pronto a distribuire denaro nel 2025.
Questi fondi saranno destinati a sostenere la transizione energetica e l’adattamento ai cambiamenti climatici dei Paesi in via di sviluppo. Il fondo per le perdite e i danni (Loss and Damage Fund), individuato dalla COP27 a Sharm el-Sheikh nel 2022, viene presentato come un passo significativo verso la giustizia climatica, cercando di garantire che i paesi che contribuiscono di meno ai cambiamenti climatici non siano quelli che ne pagano il prezzo più alto.
Le critiche mosse all’accordo sono molteplici e provengono da diverse parti:
- Paesi in via di sviluppo: Hanno sottolineato come l’importo stanziato, sebbene un aumento rispetto agli impegni precedenti, sia ancora insufficiente per far fronte alle crescenti necessità legate ai cambiamenti climatici. Gli effetti del riscaldamento globale si stanno già facendo sentire in modo particolarmente grave in queste regioni, con eventi estremi sempre più frequenti e intensi.
- Organizzazioni ambientaliste: Hanno definito l’accordo “deludente” e “poco ambizioso”, sottolineando come gli obiettivi fissati non siano sufficienti per limitare l’aumento della temperatura, come previsto dall’Accordo di Parigi.
- Esperti del clima: Hanno evidenziato come il meccanismo di finanziamento proposto, che include anche fondi privati, sia incerto e potrebbe non garantire la raccolta delle risorse necessarie.
Donne della WILPF. La delegazione della WILPF (Women’s International League for Peace and Freedom), le nostre Aine Beattie e Åse Møller-Hansen, ha espresso un giudizio critico sui risultati della COP29. Aine e Ase hanno sottolineato che, nonostante l’accordo raggiunto, le risorse destinate alla lotta contro il cambiamento climatico sono ancora insufficienti e che c’è un’eccessiva dipendenza della crescita mondiale dagli investimenti militari (circa 2.500 miliardi l’anno!) .
La delegazione WILPF ha chiesto un maggiore impegno per ridirigere i fondi militari verso soluzioni climatiche e per affrontare le disuguaglianze che colpiscono in modo sproporzionato le comunità marginalizzate. Ha anche criticato la mancanza di leadership e organizzazione durante la conferenza, sostenendo che l’accordo finale è stato raggiunto in modo affrettato e con molte, giustificate, riserve da parte dei Paesi in via di sviluppo.
Le guerre in corso hanno complicato in modo significativo il raggiungimento di compromessi e di un buon accordo alla COP29.
Ecco alcune delle ragioni principali:
- I Paesi coinvolti in conflitti armati hanno priorità immediate come la sicurezza e la ricostruzione, che spesso mettono in secondo piano le questioni climatiche. Questo crea un divario tra le loro esigenze e quelle dei Paesi che vogliono concentrarsi esclusivamente sulla transizione ecologica.
- Le guerre generano instabilità politica ed economica, rendendo difficile per i governi impegnarsi in negoziati a lungo termine e prendere decisioni strategiche sulla mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici.
- I conflitti assorbono enormi quantità di risorse finanziarie e umane, lasciando meno spazio per investimenti in politiche climatiche.
- Le zone di conflitto sono spesso difficili da raggiungere e le infrastrutture sono danneggiate, rendendo complicata la partecipazione alle negoziazioni e l’attuazione degli accordi.
- I conflitti armati minano la fiducia tra i Paesi, rendendo più difficile trovare un terreno comune e collaborare su temi globali come il clima.
Inoltre, le guerre hanno un impatto diretto sul clima:
- Aumento delle emissioni: I conflitti spesso comportano un aumento delle emissioni di gas serra a causa della produzione bellica, della distruzione delle infrastrutture e dello spostamento delle popolazioni.
- Degradazione ambientale: Le guerre possono causare danni significativi all’ambiente, rendendo le aree colpite più vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici.
Le guerre in corso rappresentano, in buona sostanza, una sfida enorme per la cooperazione internazionale sulla lotta ai cambiamenti climatici. Per affrontare efficacemente questa crisi globale, è necessario trovare soluzioni che tengano conto delle complessità geopolitiche e delle esigenze specifiche dei Paesi colpiti dai conflitti.
Quale è la percentuale di CO2 prodotta da attività militari e guerre?
Il settore militare contribuisce in modo significativo alle emissioni globali di gas serra, ma certe valutazioni forse sono troppo esagerate, stime più accurate lo collocano intorno al 5-5,5%, forse si arriva a circa il 10%. Questo valore è già di per sé molto elevato e sottolinea l’impatto ambientale cospicuo delle attività militari, ma siamo lontani dal 20% che alcuni propongono.
È importante sottolineare che:
- Il 5-5,5%, quota minima, è già un dato allarmante: Anche una percentuale più bassa del 20% indica un problema significativo. Le emissioni militari contribuiscono all’aggravamento della crisi climatica e mettono a rischio la sicurezza globale.
- L’impatto va oltre la CO2: Le attività militari hanno anche altri impatti ambientali negativi, come la contaminazione del suolo e delle acque, la distruzione degli ecosistemi e l’aumento del rischio di disastri naturali. Per non parlare della minaccia che interseziona crisi climatica e crisi nucleare!
È fondamentale riconoscere l’impatto ambientale del settore militare, ma è altrettanto importante basarsi su dati scientifici accurati per evitare esagerazioni che possono minare la credibilità della lotta disarmista.
IL DEBITO ECOLOGICO
Altra questione che è al centro della mobilitazione degli attivisti di base nelle COP, sempre più riconosciuta dalla comunità internazionale, è il concetto di “debito ecologico” accumulato dai paesi ricchi nei confronti dei Paesi in via di sviluppo.
Questo concetto si basa sull’osservazione che i Paesi industrializzati, nel corso della loro storia, hanno:
- Sfruttato in modo eccessivo le risorse naturali dei Paesi in via di sviluppo: Questo sfruttamento ha spesso portato al depauperamento delle risorse locali, alla perdita di biodiversità e all’inquinamento.
- Emesso una quantità sproporzionata di gas serra: Le emissioni cumulative dei Paesi industrializzati sono molto più elevate rispetto a quelle dei Paesi in via di sviluppo, contribuendo in modo determinante al riscaldamento globale e ai suoi effetti negativi.
- Imposto modelli di sviluppo insostenibili: I Paesi industrializzati hanno promosso modelli di sviluppo basati sulla crescita economica illimitata e sul consumo eccessivo, esportandoli nei Paesi in via di sviluppo e contribuendo così a un ulteriore degrado ambientale.
Le conseguenze di questo debito ecologico sono molteplici:
- Aumento della vulnerabilità ai cambiamenti climatici: I Paesi in via di sviluppo, che hanno contribuito meno al problema, sono spesso i più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, come siccità, inondazioni ed eventi estremi.
- Perdita di biodiversità: Lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali ha portato a una perdita significativa di biodiversità nei Paesi in via di sviluppo.
- Disuguaglianze sociali: Il debito ecologico contribuisce ad aggravare le disuguaglianze sociali tra Nord e Sud del mondo.
Per affrontare il debito ecologico, è necessario:
- Riconoscere la responsabilità storica dei Paesi industrializzati: Questo riconoscimento è fondamentale per costruire un senso di giustizia e per mobilitare le risorse necessarie per affrontare i problemi ambientali.
- Aumentare gli aiuti finanziari ai Paesi in via di sviluppo: I Paesi industrializzati devono aumentare significativamente i loro contributi ai fondi climatici per sostenere gli sforzi di adattamento e mitigazione dei Paesi in via di sviluppo.
- Promuovere la cooperazione internazionale: È necessario rafforzare la cooperazione internazionale per affrontare le sfide globali legate ai cambiamenti climatici e alla sostenibilità ambientale.
- Cambiare i modelli di consumo e produzione: I Paesi industrializzati devono intraprendere una profonda trasformazione dei loro modelli di consumo e produzione, puntando su un’economia circolare e a basse emissioni di carbonio.
Facciamo la pace con la Natura (nella visione ideale della “Terrestrità”)!
In conclusione, è evidente che la comunità internazionale, meno distratta da conflitti armati sui limes, sospinta da una opinione pubblica che non deleghi la mobilitazione ai soli ragazzini, e non indisposta dalla trappola del “politicamente corretto”, deve intensificare gli sforzi per affrontare la crisi climatica e garantire un futuro sostenibile per le generazioni future. Lo sforzo a “fare pace con la Natura” dovrebbe essere considerato il principale compito comune dell’Umanità, sostituendo tutta la conflittualità dannosa, inutile e mortifera che si scatena sullo spostare i confini amministrativi di Stati costituiti o da costituire. Tale pace con gli ecosistemi, da conservare nei loro equilibri fondamentali, è di fatto condizione della pace tra gli esseri umani, quindi della giustizia sociale.