di Alfonso Navarra – Milano 12 novembre 2024
La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 29) si è aperta, a Baku, in Azerbaigian, ieri (11 novembre) e andrà avanti fino al 22 novembre 2024.
Il Vertice COP29 vedrà riunite le Parti dell’Accordo di Parigi, mentre le crisi climatiche continuano già da adesso a devastare la vita e il benessere della gente in tutto il mondo.
Nel mondo, gli shock climatici stanno colpendo la salute e lo sviluppo incrementando la conflittualità fino a provocare ed alimentare guerre.
L’Accordo di Parigi è la principale intesa globale sul contrasto alla crisi climatica, ed è stata firmata sotto l’egida delle Nazioni Unite nel 2015.
Il patto include oggi tutte le nazioni del mondo, e prevede tra le altre cose l’impegno a fermare l’aumento della temperatura media globale «ben al di sotto dei +2°C» rispetto all’era pre-industriale. (In questo 2024 l’aumento va verso gli 1,5° C, ed è un dato spaventoso).
La comunità degli Stati semplicemente non sta facendo abbastanza in questo senso e non sembra che a Baku ci siano le premesse per invertire la tendenza.
La battuta viene facile: possiamo affidare a Dracula la gestione della donazione del sangue?
Questo significa organizzare la COP in uno Stato il cui PIL dipende completamente dalla produzione di gas e petrolio.
Il summit viene guidato proprio da un petroliere: l’attuale ministro dell’ambiente azero è un dirigente della SOCAR, l’azienda petrolifera di Stato.
Facciamo mente locale: abbiamo vissuto un altro anno di caldo record, inondazioni devastanti, siccità e uragani pericolosi per la vita.
Chi è meno responsabile di questa crisi spesso ne porta il peso maggiore.
Pensiamo, ad esempio, all’alleanza delle piccole Isole Stato (AOSIS), destinate a finire sott’acqua! Essa insiste, nella conferenza, su due impegni urgenti e indispensabili: l’abbandono completo dei combustibili fossili senza scappatoie, perseguite COP dietro COP; e i fondi necessari per l’azione climatica.
A COP29 il tema centrale di quest’anno è, appunto, la finanza climatica, verso la definizione di un nuovo obiettivo finanziario globale per il clima.
Si dovranno aggiornare gli obiettivi fissati a Copenaghen nel 2009, quando gli Stati più industrializzati si impegnarono a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno nei Paesi in via di sviluppo.
Lo spiega bene Marinella Correggia in un articolo apparso oggi (12 novembre) su IL MANIFESTO. Titolo: “Negoziati, gli schieramenti dei Paesi sulla finanza climatica”.
Un’ombra su tutto il percorso è costituita dalla presidenza Trump: è probabile il ritiro degli USA dagli accordi di Parigi, come già fece all’inizio della sua prima elezione alla Casa Bianca.
Durante la successiva presidenza Biden, gli States hanno continuato a essere il principale produttore di petrolio e gas.
L’Unione europea, dal canto suo, non ha ancora reso pubblica la propria posizione sui nuovi obiettivi di finanziamento e sulle loro caratteristiche.
Teniamo presente che le Nazioni Unite hanno quantificato i bisogni reali dei Paesi in via di sviluppo (PVS) per i prossimi cinque anni tra cinquemila e settemila miliardi di dollari. Quindi bisognerebbe parlare almeno di 1.000 miliardi all’anno, non cento, che sono troppo pochi.
I PVS chiedono di essere risarciti per i disastri naturali sempre più frequenti provocati dal riscaldamento globale.
Un tema in discussione non di poco conto è se nel conto degli investimenti vanno inseriti quelli privati.
Altra grande questione è il ruolo della Cina, ormai al primo posto tra le nazioni, sia per le emissioni climalteranti, che per espansione delle energie rinnovabili. Pur seconda economia mondiale, mantiene lo status di «paese in via di sviluppo» assegnatole al tempo dei primi negoziati sul clima, oltre 30 anni fa. E a questo titolo insiste sul fatto che i paesi di prima industrializzazione devono muoversi per primi e più velocemente e rifiuta di contribuire a fondi globali per la finanza climatica per i paesi impoveriti. Finanzia progetti autonomi, soprattutto in Africa.
Infine, ultimo ma non da ultimo, ecco un punto che possiamo dare per scontato: nessun soggetto statale o gruppo negoziale solleverà il problema delle responsabilità climalteranti del complesso militare industriale (MIC) e dei conflitti armati, nonché della riconversione delle spese militari, arrivate a quasi 2.500 miliardi di dollari.
In passato, Disarmisti esigenti e altre organizzazioni, ad esempio World Beyond War, hanno posto, nel considerare le attività militari, il problema della denuclearizzazione, considerando l’intreccio tra minaccia nucleare e minaccia climatica.
La mozione di Filiberto Zaratti, deputato di Sinistra italiana, approvata in Parlamento nel 2015, dietro spinta anche del sottoscritto, tra l’altro partecipante di persona ad alcune COP, a mio parere, rappresenta ancora, in Italia il punto più alto di questo tipo di impegno.
Il voto avvenne alla Camera il 26 novembre 2015 per contribuire a dare il via ad una nuova stagione di ragionevolezza per tutta l’umanità. Si sarebbe trattato di distruggere ogni ordigno nucleare – è un “diritto” che la “deterrenza” sia messa fuori legge e questo “diritto” deve essere contemplato in una Dichiarazione dei diritti dell’Umanità; e di operare a favore di energie che non compromettano l’ambiente e il clima, vedi i combustibili fossili ed il nucleare cd “civile”, quest’ultimo bocciato dagli italiani con il referendum del giugno 2011.
La “Carta dei diritti della Umanità” non venne fatta votare alla COP21 di Parigi del 2015: il presidente francese di allora Hollande stoppò la sua ministra dell’ambiente, Corinne Lepage.