Cominciamo noi a fare il primo passo concreto verso il cambiamento che vogliamo vedere realizzato: per evitare che l’occhio per occhio accechi il mondo
di Alfonso Navarra*
Articolo in versione sintetica seguita da piccolo saggio in versione più lunga
ARTICOLO
La Fondazione Corriere della Sera ha appena ripubblicato, nel settembre 2024, tutti gli scritti sul giornale di Carlo Cassola, nel periodo dall’ottobre del 1953 al marzo del 1984. La nuova edizione è stata affidata a Alba Andreini, una delle massime studiose dell’opera di Cassola, già curatrice, tra l’altro, del volume dei Meridiani dedicato allo scrittore romano.
Vi è una prima fase della collaborazione di Cassola al Corriere della Sera caratterizzata dalla critica letteraria; ma la seconda fase testimonia il grande impegno antimilitarista e pacifista che caratterizzò gli ultimi anni della sua vita, in cui, nel 1978, fondò la Lega per il disarmo unilaterale; organizzazione antimilitarista nonviolenta di cui sono attualmente segretario (la vedova di Cassola, Pola Natali, ne è il presidente).
Nei suoi ultimi scritti, Cassola manifesta di aver angosciosamente capito che il 6 agosto del 1945 iniziava una fase epocale in cui l’umanità avrebbe vissuto il momento più tragico della sua storia: quello che poteva vederla scomparire.
“Il sonno della ragione partorisce i mostri, fu detto già in epoca romantica. Noi di mostri abbiamo una conoscenza molto più approfondita di quei nostri antenati. Fascismo, nazismo, stalinismo, la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio, per fortuna sono alle nostre spalle; il nazionalismo e il militarismo purtroppo no, così che abbiamo davanti una prospettiva anche più terrificante di quelle passate: una terza guerra mondiale o una catastrofe ecologica che distrugga la vita del pianeta“.
La spiegazione, per Cassola, di questa difficile situazione risiede nel fatto che a guidare l’umanità non è stata l’intelligenza, ma il potere; e che la storia ha seguito una traiettoria iniqua in cui l’intelligenza ha creato la civiltà ma è stato il potere distinto dall’intelligenza a guidare gli uomini. È questo il filo rosso che Cassola segue nel suo discorso sull’evoluzione storica della civiltà umana che “può suscitare obiezioni”; ma l’importante è essere d’accordo con la sua conclusione: “il divario tra intelligenza e potere è sempre stato un male per l’umanità. Anche quando era minimo. Oggi è smisurato: a un’intelligenza sviluppatissima si contrappone un potere sottosviluppato. Ed è questo potere sottosviluppato a decidere come vanno usati i prodotti della sviluppatissima intelligenza. In queste condizioni la fine del mondo è sicura.”
A tal proposito l’argomentazione usata da Cassola è tanto semplice quanto logicamente coerente: dopo le due esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki gli statisti internazionali, ingabbiati dal militarismo e dal nazionalismo nella logica della “deterrenza”, hanno continuato a produrre armamenti atomici ingigantendo la minaccia di annientamento dell’umanità invece di lavorare alla costruzione di un ordine mondiale federalista che “metta per sempre l’umanità al riparo dalla catastrofe della guerra e le permetta di evitare le catastrofi ecologiche”. È quest’ultimo il “pensiero grande” che deve guidare un potere intelligente, un pensiero che gli intellettuali falsamente impegnati non hanno proposto con la forza necessaria, e che politici insipienti hanno lasciato inascoltato, dimostrando di preferire “la fine del mondo al nascere di un mondo che faccia a meno di loro”.
Solo un potere intelligente guidato da un pensiero che “non corra dietro il piccolo ma vada dietro al grande” può salvarci da una fine scontata. “Un pensiero che si cimenti con la strategia. Un pensiero rivoluzionario”. In epoca moderna solo con le spinte rivoluzionarie l’intelligenza ha conquistato il potere, ma tale conquista è durata troppo poco tempo: è successo in Russia tra il 1917 e il 1922, era già successo in Francia tra il 1789 e il 1794.
Le rivoluzioni a metà, come quella francese e russa, ma anche quella cristiana, sono state quelle che hanno rinunciato ai loro progetti internazionalisti per paura di perdere il potere conquistato. Qui Cassola non ammette nessuna via di mezzo, si dimostra sfiduciato di fronte a qualsiasi riforma: “Nell’era atomica l’umanità può sopravvivere solo realizzando l’internazionale. A sua volta l’internazionale può essere realizzata solo dalla rivoluzione”. È una necessità su cui dovrebbero concordare tutti: rivoluzionari, riformisti e conservatori, solo così si potrebbe scongiurare una catastrofe talmente spaventosa da essere del tutto inimmaginabile.
Questa necessità incalzante spinge Cassola a spendere gli ultimi anni della sua esistenza nella quasi esclusiva missione di ricordare quanto fosse necessario e con quali mezzi preservare la condizione vera della pace: il superamento del militarismo e degli Stati nazionali “assolutamente” sovrani. Questa sua battaglia non incontrò il favore degli intellettuali, e soprattutto degli specialisti di storia e di politica, spesso reclutati nei “campi” delimitati dalla Guerra fredda, che mal tolleravano l’invasione del romanziere in un ambito problematico che non era considerato di sua competenza.
Da questo humus storico e culturale della riflessione di Cassola nasce la proposta della campagna per il disarmo unilaterale dell’Italia, lanciata, appunto, con un appello pubblicato il 2 luglio 1977 sul Corriere della Sera e corroborata sullo stesso giornale da una serie di suoi interventi.
La sua proposta, in sintesi, era basata sull’idea che l’Italia avrebbe dovuto rinunciare, per prima nel mondo, volontariamente, nel contesto geopolitico della Guerra fredda, alle armi e alle spese militari, dando l’esempio agli altri paesi e promuovendo una cultura di pace e di fratellanza umana.
Credo utile citare queste sue parole, tratte da «La rivoluzione disarmista», pubblicata da Rizzoli nel 1983, che mi appaiono oggi decisamente attuali: «Basterebbe che un solo popolo si ribellasse al ricatto della difesa (e della sovranità armata degli Stati nazionali – ndr) per mettere in crisi il militarismo dappertutto. Patriotticamente mi auguro che questo popolo più intelligente degli altri sia il mio. (….) Chi non capisce che è questo il terreno dello scontro decisivo tra progresso e reazione, tra civiltà e barbarie, è di destra, anche se si proclama di sinistra. In altre parole o la sinistra vince la battaglia per la pace o non avrà un’occasione di farsi valere, perché il mondo salterà in aria».
La proposta del disarmo unilaterale non piaceva ai conservatori filoamericani e neppure alla sinistra comunista, che era legata alla politica estera dell’Urss. Alla Lega aderirono alcuni intellettuali come Ernesto Treccani, padre Ernesto Balducci, Cesare Musatti, padre Davide Maria Turoldo, ma la maggior parte degli intellettuali restò indifferente, se non ostile.
Nell’epoca che stiamo vivendo – in cui osserviamo rivelati in tutta la loro drammaticità l’egoismo degli Stati nazionali l’un contro l’altro armati – armati nuclearmente! – e il prevalere di logiche di accumulazione illimitata sulla necessità di un’azione politica comune che non lasci allo sbando la popolazione globale sofferente – rileggere Cassola ci consente di aprire la nostra mente e di capire che l’antimilitarismo e l’internazionalismo da lui sostenuti sono ancora una lotta attuale e saranno ancora di più la lotta dell’oggi e di domani.
DISARMO UNILATERALE E OMOGENEITA’ MEZZI-FINI
Su un punto, a questo proposito, sulle spalle del gigante Cassola, voglio ora puntare il riflettore: il principio del disarmo unilaterale, ovvero la decisione di una nazione di ridurre il proprio arsenale bellico indipendentemente dalle azioni di altre nazioni, può essere integrato e assimilato all’omogeneità mezzi-fini che è la base della nonviolenza gandhiana?
La risposta che suggerisco è: sì, senza dubbio.
Il disarmo unilaterale è, a ben vedere, un atto nonviolento che mira a un fine di pace e sicurezza. Rinunciando alle armi, anche solo in modo parziale, si rinuncia alla possibilità di utilizzarle e si invia un messaggio di fiducia e distensione agli altri paesi. Questa politica può rompere il ciclo della violenza e della corsa agli armamenti, creando un clima più favorevole al dialogo e alla cooperazione internazionale. Una nazione che persegue la pace e la nonviolenza deve agire coerentemente con questi valori anche a livello di politica di difesa. Il disarmo unilaterale è una dimostrazione concreta di questa coerenza.
Ricordiamo la massima gandhiana: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, che è una evidente esortazione ad agire sulla base della omogeneità mezzi-fini. Traduciamola in precetti concreti: “Vuoi il disarmo? Comincia tu per primo, singolo, popolo o Stato, a gettare le armi!”. “Vuoi che ti si accordi fiducia? Comincia tu per primo, singolo, popolo o Stato, a mostrare fiducia nel comportamento non necessariamente aggressivo del prossimo!”.
Il principio del disarmo unilaterale si allinea, allora, con l’omogeneità mezzi-fini della nonviolenza gandhiana. Entrambi sostengono che per raggiungere un mondo di pace e giustizia, è necessario utilizzare mezzi nonviolenti e coerenti con questo obiettivo. Il disarmo unilaterale è un atto di fiducia nell’umanità e nella possibilità di risolvere i conflitti attraverso il dialogo e la cooperazione, piuttosto che con la forza delle armi.
Si tratta della logica opposta del “Si vis pacem para bellum”. Bisogna lavorare, invece, all’insegna del “Si vis pacem para pacem“.
Se vuoi la pace non riarmare, ma disarma per primo, anche solo un po’.
Se vuoi abbassare il tasso di violenza di una società, non esaltare gli armati e le azioni armate, ma celebra piuttosto i disarmati e i costruttori di ponti di dialogo!
È importante notare che il disarmo unilaterale è una scelta complessa che deve essere valutata attentamente nel contesto geopolitico specifico. L’intelligenza nel valutare i rapporti di forza e la situazione concreta non va mai accantonata! Tuttavia, il principio di omogeneità mezzi-fini offre un quadro etico e filosofico importante per guidare le decisioni in materia di politica di difesa e sicurezza internazionale.
* segretario della Lega per il disarmo unilaterale, coordinatore dei Disarmisti esigenti / email alfiononuke@gmail.com /cell. 340-0736871
(le opinioni qui espresse sono di responsabilità esclusiva dello scrivente, e non coinvolgono la linea redazionale. Sono uno stimolo ad allargare le prospettive e ad aprire dibattiti costruttivi tra i lettori)
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PICCOLO RAGIONAMENTO IN APPENDICE (redatto con l’aiuto di Gemini)
Cominciamo noi a fare il primo passo concreto verso il cambiamento che vogliamo vedere realizzato: per evitare che l’occhio per occhio accechi il mondo
di Alfonso Navarra*
La Fondazione Corriere della Sera ha appena ripubblicato, nel settembre 2024, tutti gli scritti sul giornale di Carlo Cassola, nel periodo dall’ottobre del 1953 al marzo del 1984. La nuova edizione è stata affidata a Alba Andreini, una delle massime studiose dell’opera di Cassola, già curatrice, tra l’altro, del volume dei Meridiani dedicato allo scrittore romano.
Vi è una prima fase della collaborazione di Cassola al Corriere della Sera caratterizzata dalla critica letteraria; ma la seconda fase testimonia il grande impegno antimilitarista e pacifista che caratterizzò gli ultimi anni della sua vita, in cui, nel 1978, fondò la Lega per il disarmo unilaterale; organizzazione antimilitarista nonviolenta di cui sono attualmente segretario (la vedova di Cassola, Pola Natali, ne è il presidente).
Nei suoi ultimi scritti, Cassola manifesta di aver angosciosamente capito che il 6 agosto del 1945 iniziava una fase epocale in cui l’umanità avrebbe vissuto il momento più tragico della sua storia: quello che poteva vederla scomparire.
“Il sonno della ragione partorisce i mostri, fu detto già in epoca romantica. Noi di mostri abbiamo una conoscenza molto più approfondita di quei nostri antenati. Fascismo, nazismo, stalinismo, la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio, per fortuna sono alle nostre spalle; il nazionalismo e il militarismo purtroppo no, così che abbiamo davanti una prospettiva anche più terrificante di quelle passate: una terza guerra mondiale o una catastrofe ecologica che distrugga la vita del pianeta“.
La spiegazione, per Cassola, di questa difficile situazione risiede nel fatto che a guidare l’umanità non è stata l’intelligenza, ma il potere; e che la storia ha seguito una traiettoria iniqua in cui l’intelligenza ha creato la civiltà ma è stato il potere distinto dall’intelligenza a guidare gli uomini. È questo il filo rosso che Cassola segue nel suo discorso sull’evoluzione storica della civiltà umana che “può suscitare obiezioni”; ma l’importante è essere d’accordo con la sua conclusione: “il divario tra intelligenza e potere è sempre stato un male per l’umanità. Anche quando era minimo. Oggi è smisurato: a un’intelligenza sviluppatissima si contrappone un potere sottosviluppato. Ed è questo potere sottosviluppato a decidere come vanno usati i prodotti della sviluppatissima intelligenza. In queste condizioni la fine del mondo è sicura.”
A tal proposito l’argomentazione usata da Cassola è tanto semplice quanto logicamente coerente: dopo le due esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki gli statisti internazionali, ingabbiati dal militarismo e dal nazionalismo nella logica della “deterrenza”, hanno continuato a produrre armamenti atomici ingigantendo la minaccia di annientamento dell’umanità invece di lavorare alla costruzione di un ordine mondiale federalista che “metta per sempre l’umanità al riparo dalla catastrofe della guerra e le permetta di evitare le catastrofi ecologiche”. È quest’ultimo il “pensiero grande” che deve guidare un potere intelligente, un pensiero che gli intellettuali falsamente impegnati non hanno proposto con la forza necessaria, e che politici insipienti hanno lasciato inascoltato, dimostrando di preferire “la fine del mondo al nascere di un mondo che faccia a meno di loro”.
Solo un potere intelligente guidato da un pensiero che “non corra dietro il piccolo ma vada dietro al grande” può salvarci da una fine scontata. “Un pensiero che si cimenti con la strategia. Un pensiero rivoluzionario”. In epoca moderna solo con le spinte rivoluzionarie l’intelligenza ha conquistato il potere, ma tale conquista è durata troppo poco tempo: è successo in Russia tra il 1917 e il 1922, era già successo in Francia tra il 1789 e il 1794.
Le rivoluzioni a metà, come quella francese e russa, ma anche quella cristiana, sono state quelle che hanno rinunciato ai loro progetti internazionalisti per paura di perdere il potere conquistato. Qui Cassola non ammette nessuna via di mezzo, si dimostra sfiduciato di fronte a qualsiasi riforma: “Nell’era atomica l’umanità può sopravvivere solo realizzando l’internazionale. A sua volta l’internazionale può essere realizzata solo dalla rivoluzione”. È una necessità su cui dovrebbero concordare tutti: rivoluzionari, riformisti e conservatori, solo così si potrebbe scongiurare una catastrofe talmente spaventosa da essere del tutto inimmaginabile.
Questa necessità incalzante spinge Cassola a spendere gli ultimi anni della sua esistenza nella quasi esclusiva missione di ricordare quanto fosse necessario e con quali mezzi preservare la condizione vera della pace: il superamento del militarismo e degli Stati nazionali “assolutamente” sovrani. Questa sua battaglia non incontrò il favore degli intellettuali, e soprattutto degli specialisti di storia e di politica, spesso reclutati nei “campi” delimitati dalla Guerra fredda, che mal tolleravano l’invasione del romanziere in un ambito problematico che non era considerato di sua competenza.
Da questo humus storico e culturale della riflessione di Cassola nasce la proposta della campagna per il disarmo unilaterale dell’Italia, lanciata, appunto, con un appello pubblicato il 2 luglio 1977 sul Corriere della Sera e corroborata sullo stesso giornale da una serie di suoi interventi.
La sua proposta, in sintesi, era basata sull’idea che l’Italia avrebbe dovuto rinunciare, per prima nel mondo, volontariamente, nel contesto geopolitico della Guerra fredda, alle armi e alle spese militari, dando l’esempio agli altri paesi e promuovendo una cultura di pace e di fratellanza umana.
Credo utile citare queste sue parole, tratte da «La rivoluzione disarmista», pubblicata da Rizzoli nel 1983, che mi appaiono oggi decisamente attuali: «Basterebbe che un solo popolo si ribellasse al ricatto della difesa (e della sovranità armata degli Stati nazionali – ndr) per mettere in crisi il militarismo dappertutto. Patriotticamente mi auguro che questo popolo più intelligente degli altri sia il mio. (….) Chi non capisce che è questo il terreno dello scontro decisivo tra progresso e reazione, tra civiltà e barbarie, è di destra, anche se si proclama di sinistra. In altre parole o la sinistra vince la battaglia per la pace o non avrà un’occasione di farsi valere, perché il mondo salterà in aria».
La proposta del disarmo unilaterale non piaceva ai conservatori filoamericani e neppure alla sinistra comunista, che era legata alla politica estera dell’Urss. Alla Lega aderirono alcuni intellettuali come Ernesto Treccani, padre Ernesto Balducci, Cesare Musatti, padre Davide Maria Turoldo, ma la maggior parte degli intellettuali restò indifferente, se non ostile.
Nell’epoca che stiamo vivendo – in cui osserviamo rivelati in tutta la loro drammaticità l’egoismo degli Stati nazionali l’un contro l’altro armati – armati nuclearmente! – e il prevalere di logiche di accumulazione illimitata sulla necessità di un’azione politica comune che non lasci allo sbando la popolazione globale sofferente – rileggere Cassola ci consente di aprire la nostra mente e di capire che l’antimilitarismo e l’internazionalismo da lui sostenuti sono ancora una lotta attuale e saranno ancora di più la lotta dell’oggi e di domani.
DISARMO UNILATERALE E OMOGENEITA’ MEZZI-FINI
Su un punto, a questo proposito, sulle spalle del gigante Cassola, voglio ora puntare il riflettore: il principio del disarmo unilaterale, ovvero la decisione di una nazione di ridurre il proprio arsenale bellico indipendentemente dalle azioni di altre nazioni, può essere integrato e assimilato all’omogeneità mezzi-fini che è la base della nonviolenza gandhiana?
La risposta che suggerisco è: sì, senza dubbio.
Il disarmo unilaterale è, a ben vedere, un atto nonviolento che mira a un fine di pace e sicurezza. Rinunciando alle armi, anche solo in modo parziale, si rinuncia alla possibilità di utilizzarle e si invia un messaggio di fiducia e distensione agli altri paesi. Questa politica può rompere il ciclo della violenza e della corsa agli armamenti, creando un clima più favorevole al dialogo e alla cooperazione internazionale. Una nazione che persegue la pace e la nonviolenza deve agire coerentemente con questi valori anche a livello di politica di difesa. Il disarmo unilaterale è una dimostrazione concreta di questa coerenza.
Ricordiamo la massima gandhiana: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, che è una evidente esortazione ad agire sulla base della omogeneità mezzi-fini. Traduciamola in precetti concreti: “Vuoi il disarmo? Comincia tu per primo, singolo, popolo o Stato, a gettare le armi!”. “Vuoi che ti si accordi fiducia? Comincia tu per primo, singolo, popolo o Stato, a mostrare fiducia nel comportamento non necessariamente aggressivo del prossimo!”.
Il principio del disarmo unilaterale si allinea, allora, con l’omogeneità mezzi-fini della nonviolenza gandhiana. Entrambi sostengono che per raggiungere un mondo di pace e giustizia, è necessario utilizzare mezzi nonviolenti e coerenti con questo obiettivo. Il disarmo unilaterale è un atto di fiducia nell’umanità e nella possibilità di risolvere i conflitti attraverso il dialogo e la cooperazione, piuttosto che con la forza delle armi.
Si tratta della logica opposta del “Si vis pacem para bellum”. Bisogna lavorare, invece, all’insegna del “Si vis pacem para pacem“.
Se vuoi la pace non riarmare, ma disarma per primo, anche solo un po’.
Se vuoi abbassare il tasso di violenza di una società, non esaltare gli armati e le azioni armate, ma celebra piuttosto i disarmati e i costruttori di ponti di dialogo!
È importante notare che il disarmo unilaterale è una scelta complessa che deve essere valutata attentamente nel contesto geopolitico specifico. L’intelligenza nel valutare i rapporti di forza e la situazione concreta non va mai accantonata! Tuttavia, il principio di omogeneità mezzi-fini offre un quadro etico e filosofico importante per guidare le decisioni in materia di politica di difesa e sicurezza internazionale.
QUANTO SOPRA AFFERMATO NON E’ PER NULLA BANALE E NEANCHE SCONTATO. LA PROVA? I “NONVIOLENTI” PRO ZELENSKY O PRO PUTIN; E PRO NETANYAHU O PRO HAMAS!
Il mondo telematico odierno, subissato dal rumore dei post schiacciati sulla attenzione presente che cancella il passato, fa sì che le organizzazioni centenarie della nonviolenza, ad esempio l’IFOR o la WRI, siano ignorate e tacitate da improvvisati “nonviolenti” dell’ultimo minuto, magari i più avvezzi a manipolare le tastiere e a diffondere messaggi sui social, e spesso i più arroganti e supponenti nel definire ciò che è giusto e ciò che non lo è dal punto di vista della nonviolenza.
Abbiamo così cortei e appelli “nonviolenti” che parteggiano per guerre “giuste”, nell’epoca in cui, per citare Papa Francesco, “non esistono guerre giuste” in quanto, ben oltre la condanna etica di fondo, “la guerra oggi è sempre una sconfitta“.
In questo caso, il riferimento alla guerra Ucraina non è per nulla casuale.
Lo ho argomentato su questo stesso sito di PACE TERRA DIGNITA’ con un articolo intitolato: “La fine della guerra giusta”, reperibile al link: LA FINE DELLA GUERRA GIUSTA – Pace Terra Dignità
“Quali sono i motivi per cui la “giustizia” oggi, ammesso che mai lo sia stata in passato, non ha nulla più a che fare con la guerra? Per cui, ad esempio dal punto di vista della tradizionale dottrina cattolica elaborata da Sant’Agostino nel IV secolo, non si può mai considerare la guerra uno strumento applicabile secondo il criterio della proporzionalità (pur ammettendo “una giusta causa, un intento corretto, un uso delle armi come ultima risorsa, una ragionevole speranza di successo nell’attacco”)?
Ne richiamiamo due principali.
Primo. Qualsiasi impiego di armi oggi, stante il loro sviluppo tecnologico e le loro modalità di impiego, danneggia più gli innocenti civili estranei che gli implicati direttamente nel conflitto, e danneggia la Terra, cioè il corpo vivente di tutti gli umani.
Secondo. Non possiamo non sapere, oggi, che esiste l’alternativa efficace dei metodi di resistenza nonviolenta.
Guerra mai giusta. Autodifesa armata a volte necessaria.
Papa Francesco, partendo da questa condanna di tutte le guerre, che di per sé sarebbero tutte sbagliate, poi è arrivato a questa elaborazione che, noi attivisti disarmisti, avevamo già ben masticato e digerito. La guerra non è mai “giusta” ma può talvolta essere “necessaria” una legittima difesa. Anche armata, in talune circostanze, quando ci si trova, senza averlo potuto prevenire, in uno “stato di necessità”. Che in questo articolo ovviamente intendiamo in un senso più generale (e generico), adattato a grandi contesti e non a rapporti privati, rispetto a quanto si può ad esempio ricavare dalla giurisprudenza italiana con riferimento all’art. 54 del codice penale. Cioè, guardiamo a una situazione di emergenza che, per tutelare la salute, la vita o la sicurezza di una collettività sotto minaccia reale o credibilmente putativa, esige una reazione al di fuori delle normali regole giuridiche e comportamentali.
Questa formulazione, che può sembrare a prima vista contraddittoria, non è proprio – a ben guardare – il contrario della giustificazione della guerra?
La contraddizione è infatti rimuovibile se si sa distinguere tra resistenza armata in forma di guerra, risposta militare temporanea ad una aggressione armata in atto e resistenza armata in forma di guerriglia. Mai la legittima difesa, dettata da uno stato di necessità, che talvolta può essere costretta ad assumere la forma di una resistenza armata, nella modalità ad esempio di una guerriglia, deve essere esercitata nella forma, nella modalità della guerra permanente ad alta intensità!
La differenza tra guerra e guerriglia.
Con l’aiuto del generale Fabio Mini possiamo riuscire a inquadrare la differenza tra guerra e guerriglia. Il generale Mini è un esperto di forme belliche e ha scritto diversi libri sull’argomento, tra cui La guerra spiegata a… e Che guerra sarà. La differenza tra guerra e guerriglia è che la guerra è un conflitto armato tra due o più belligeranti che si affrontano in modo convenzionale, con truppe regolari, armi pesanti e strategie definite, mentre la guerriglia è una forma di lotta armata condotta da parte di gruppi irregolari che evitano scontri diretti con il nemico e preferiscono attacchi improvvisi, sabotaggi e azioni di disturbo, sfruttando la mobilità, la conoscenza del territorio e il sostegno della popolazione locale (di cui può essere diretta espressione).
Ovviamente per rendere meno drammatiche le opzioni che si presentano nello stato di necessità, cioè impiego dell’esercito in funzione temporanea di risposta a una aggressione militare in atto, ricorso alla guerriglia, mobilitazione popolare disarmata alla Primavera di Praga, bisogna creare un contesto politico-sociale migliore con l’azione preventiva.
La legittima difesa avrà tanta più possibilità di essere esercitata in una modalità nonviolenta efficace quanto più si sarà preparato prima il terreno a indebolire le strutture del sistema di guerra.
Agire in via preventiva per evitare le guerre
Tutto ciò tenendo bene a mente l’analisi operata da Marco Deriu, che – citando lo storico americano Gabriel Kolko – argomenta sull’impossibilità del controllo razionale e pianificato della violenza e della guerra. La critica della Hybris dei governanti è sviluppata nel suo articolo, pubblicato nella rivista online Quaderni della decrescita, n.0/1, settembre dicembre 2023, intitolato: “Demilitarizzare il nostro immaginario (e prendersi cura della vulnerabilità reciproca)”.
La lotta alla guerra si fa innanzitutto con la prevenzione – una strategia ed una azione preventive – che combatte il sistema di guerra e radica, con il programma costruttivo, l’alternativa di una società strutturalmente pacifica.
La prevenzione deve evitare che si presentino crisi in forma drammatica, e comunque permette di gestire queste crisi con un alto tasso di risposta nonviolenta.
Per questo la prevenzione, oltre a una politica estera pacifica che oggi deve puntare a una cooperazione internazionale sui problemi globali della umanità con spirito di giustizia e di “terrestrità”, deve anche consistere nella “difesa popolare nonviolenta”, da predisporre e organizzare immediatamente già in tempo di pace.
Proviamo ora a ricapitolare. Si può capire che, in ambito nonviolento, vi siano persone e gruppi più schierati dalla parte ucraina che dalla parte della pace. Ma questo non deve per forza prevedere una resistenza armata portata acanti nella modalità della guerra ad alta intensità. Oltretutto stiamo verificando che questa scelta sta pregiudicando il “bene” che si propone di voler difendere: possiamo dire ancora che esiste un territorio ucraino praticabile, ed una nazione ucraina in piedi, con le infrastrutture industriali e abitative devastate, con una generazione di giovani maschi “evaporati” (uccisi o mutilati) e la metà della popolazione esule?
Ma i sostenitori “nonviolenti” della “resistenza” di Zelensky sono ben controbilanciati dai giustificazionisti della invasione russa. Per questi ultimi Putin sarebbe stato “costretto” a reagire dalla arroganza della NATO e dal massacro subito dalle popolazioni russofone del Donbass. Non avrebbe avuto altra scelta che non sguinzagliare i suoi carri armati nel febbraio del 2022!
Questo sul piano del ragionamento di principio. Ma anche su un piano più politicamente pragmatico, l’affermazione distorce la realtà del conflitto, per una serie di motivi.
L’invasione russa è una chiara violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, uno stato indipendente e riconosciuto a livello internazionale. Nessuna presunta “arroganza” della NATO può giustificare l’uso della forza militare contro un paese sovrano.
Nonostante le preoccupazioni russe sull’espansione della NATO, non c’era alcuna minaccia imminente di un attacco da parte dell’Alleanza Atlantica contro la Russia. L’Ucraina non era membro della NATO e non c’erano piani concreti per la sua adesione a breve termine. Il coinvolgimento nella UE valeva lo scatafascio che abbiamo visto, costato alla Russia l’essenziale asse energetico ed economico con la Germania?
Le motivazioni addotte dalla Russia per l’invasione, sulla base dell’ideologia del Russkiy Mir, cioè «mondo russo», come la “denazificazione” e la protezione delle minoranze russofone, sono state ampiamente screditate e considerate pretesti infondati per giustificare un atto di aggressione.
Il conflitto tra Russia e Ucraina non è iniziato con l’invasione del 2022, ma con l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia nel 2014 e il sostegno ai separatisti nel Donbass. Questi eventi dimostrano una volontà russa di destabilizzare l’Ucraina ben precedente a qualsiasi “arroganza” della NATO.
L’invasione, come si è accennato, ha causato migliaia di morti, milioni di rifugiati e una distruzione diffusa in Ucraina. Definirla una “risposta necessaria” significa ignorare le immense sofferenze inflitte al popolo ucraino.
L’invasione russa è stata un’aggressione non provocata e ingiustificata, una violazione del diritto internazionale e dei principi fondamentali della convivenza pacifica tra le nazioni.
È ovviamente importante riconoscere che la Russia ha delle preoccupazioni legittime riguardo alla sua sicurezza e all’espansione della NATO. Tuttavia, queste preoccupazioni non possono giustificare l’uso della forza militare contro un paese sovrano. Il dialogo e la diplomazia sono gli strumenti appropriati per affrontare le questioni di sicurezza internazionale.
È fondamentale, da un punto di vista nonviolento serio, condannare fermamente l’aggressione russa e sostenere l’Ucraina nella sua difesa della propria integrità territoriale e della propria indipendenza. Ma, come si è detto, questa autodifesa non va esercitata nella forma della guerra ad alta intensità. Allo stesso tempo, è necessario continuare a cercare soluzioni diplomatiche per risolvere il conflitto e garantire la sicurezza di tutti i paesi coinvolti, nel rispetto del diritto internazionale e dei principi della Carta delle Nazioni Unite.
Allo stesso modo, nella guerra in Medio Oriente osserviamo l’agitarsi di “nonviolenti” che supportano, dalla parte di Israele costi quel che costi, il massacro perpetrato dal governo Netanyahu, messo sotto accusa dalla Corte penale internazionale per “tendenza genocidiaria”.
Ma che dire dei “nonviolenti” che considerano il 7 ottobre di Hamas e compari Jiadisti vari un atto di resistenza necessitato dalla “oppressione israeliana”?
Sebbene il contesto del conflitto israelo-palestinese sia complesso e caratterizzato da una lunga storia di tensioni, occupazione e sofferenze per entrambe le parti, le azioni di Hamas costituiscono una grave violazione del diritto internazionale e non possono essere giustificate come forma di resistenza legittima. Ecco alcuni punti chiave da considerare.
L’attacco ha preso di mira in modo indiscriminato civili israeliani, tra cui donne, bambini e anziani. Massacri, stupri e rapimenti di civili non possono essere considerati atti di resistenza, ma costituiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Le azioni di Hamas rientrano nella definizione di terrorismo, che mira a diffondere terrore e panico tra la popolazione civile per raggiungere obiettivi politici. Il terrorismo è condannato a livello internazionale e non può essere giustificato in alcun contesto.
Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto complesso con radici profonde. L’occupazione dei territori palestinesi, la questione dei rifugiati, la sicurezza di Israele e la creazione di uno stato palestinese sono tutte questioni che devono essere affrontate attraverso il dialogo e la negoziazione, non attraverso la violenza.
Pur riconoscendo le difficoltà e le frustrazioni del popolo palestinese, esistono alternative alla violenza per perseguire i propri obiettivi politici, come il dialogo, la diplomazia e la resistenza non violenta. La violenza non è mai l’unica soluzione e spesso porta a un’escalation del conflitto e a maggiori sofferenze per entrambe le parti.
È importante distinguere tra resistenza legittima e terrorismo:
- Resistenza legittima: La resistenza all’occupazione, nel rispetto del diritto internazionale e senza prendere di mira i civili, può essere considerata legittima.
- Terrorismo: L’uso della violenza indiscriminata contro i civili per fini politici è terrorismo e non può essere giustificato.
L’attacco del 7 ottobre di Hamas è stato un atto di violenza ingiustificabile che ha causato immense sofferenze a entrambe le parti. Condannare queste azioni non significa negare le difficoltà e le sofferenze del popolo palestinese, ma affermare un principio fondamentale: la violenza contro i civili non è mai accettabile e non può essere considerata una forma di resistenza legittima.
È necessario promuovere il dialogo e la negoziazione per trovare una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese che garantisca la sicurezza di Israele e i diritti del popolo palestinese, nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani.
Dal nostro punto di vista interessato a spegnere un conflitto che, dal Medio Oriente, può incendiare il mondo, è decisivo prendere nota che, secondo parere quasi unanime, se Marwan Barghouti, attualmente detenuto nelle carceri israeliane, si candidasse alle elezioni presidenziali per la Palestina, sondaggi credibili lo danno per vincente nella stessa Striscia di Gaza, oltre che nella Cisgiordania amministrata dall’OLP.
Stiamo parlando di un leader amato e rispettato dai palestinesi, come appunto lo era Nelson Mandela dai sudafricani.
Non un pacifista identitario (neanche Mandela con l’ANC lo era) ma una persona sicuramente non fanatica, non accecata dall’odio, non votata all’occhio per occhio, che rende cieco il mondo. Insomma, non tra i fondamentalisti invasati, che dall’una e dall’altra parte del conflitto, si sia nella posizione del gruppo umano dominante o meno, poiché non riconoscono reciprocamente il diritto dell’altro ad esistere, sono i peggiori nemici dei popoli che pretendono di rappresentare. (…)
Chiediamo che Israele, con le sue istituzioni, compia un atto intelligente che contribuirà a togliere la parola alle armi e a svuotare i giacimenti di odio razzista in perenne coltivazione. Diamo la possibilità ai palestinesi di votare, insieme ad altri, un leader che possa guidarli al dialogo e alla pace possibile. Così, con gli abissi di orrore e di terrore cui stiamo assistendo, non si può andare avanti, è ora di una svolta concreta per fare finire le ostilità nella regione! Le armi devono tacere e la parola deve essere riconsegnata a una politica che sappia dialogare grazie a leader ragionevoli e disponibili, da ambedue le parti, a mettersi a discutere intorno a un tavolo…
Per sottoscrivere online l’appello con la proposta di un Comitato per la liberazione di Barghouti si vada su:
https://www.petizioni24.com/barghouti_libero
POSSIAMO CONCEPIRE UN ANTIMILITARISMO NONVIOLENTO DELL’OCCHIO PER OCCHIO?
Si torni ora al buon Carlo Cassola, che pure era stato partigiano nella lotta armata al nazifascismo (nome di battaglia: Giacomo, esplosivista nelle Brigate Garibaldi), e lo si immagini interloquire con questi antimilitaristi nonviolenti giustificazionisti dei carri armati di Putin e del 7 ottobre di Hamas. Giustificazionisti in questo senso: non come azioni giuste in sé ma come atti necessitati da reazioni inevitabili “costrette” dalle mosse arroganti e oppressive della NATO “accerchiante” e della Israele “colonialista” al servizio dell’imperialismo USA.
Come si sarebbe rapportato con le “teste calde” che nei cortei inalberano striscioni inneggianti alla “resistenza russa” o alla “resistenza palestinese”?
Provo ad avanzare una risposta. Si sarebbe forse contrapposto con una affermazione provocatoria che – cito a memoria – a volte tirava fuori, per sottolineare il rischio estremo che corriamo per la fine del mondo. “Sento nel movimento antinucleare proporre lo slogan: “Meglio rossi che morti!”. Io sarei ancora più estremo: “Meglio neri che morti!“
L’affermazione “meglio neri che morti”, è complessa e richiede un’analisi contestualizzata al pericolo nucleare per comprenderne appieno il significato e valutarne la accettabilità aforistica.
La frase si riferisce al periodo della corsa alle armi nucleari nella Guerra fredda In quel contesto, “neri” si riferiva a qualsiasi regime autocratico, mentre “morti” si riferiva alla possibilità di essere radioattivizzati tutte e tutti subendo sulla testa uno scambio di missili “atomici”.
L’affermazione, quindi, non va interpretata in senso letterale, ma metaforicamente come una scelta tra due mali:
- “Essere neri” (sudditi di un regime oppressivo): significava subire il ricatto di un sistema violento, responsabile di crimini contro l’umanità e della soppressione delle libertà individuali.
- “Essere morti”: significava perdere la definitivamente vita della specie a causa della violenza irredimibile di un conflitto nucleare.
In questo contesto specifico, la frase esprime la razionalità di evitare la morte universale anche a costo di una compromissione tattica (= subire transitoriamente il ricatto) di un regime autoritario, di qualsiasi colore si mascheri.
La condivisibilità di questa affermazione è certamente molto discutibile e dipende dal punto di vista che si adotta:
- Dal punto di vista della sopravvivenza della specie: in una situazione estrema come la guerra “atomica”, la priorità assoluta può essere la sopravvivenza fisica, anche a costo di scelte moralmente discutibili. In questo senso, la frase può essere interpretata come un disperato tentativo di preservare la vita in quanto tale.
- Dal punto di vista morale e ideologico: la frase può essere criticata perché sembra mettere sullo stesso piano l’oppressione e la morte, relativizzando la gravità dell’adesione a un regime totalitario.
È importante ribadire che l’affermazione di Cassola non era una apologia del fascismo. Lo scrittore, è bene ripeterlo, era un antifascista convinto e partecipò attivamente alla Resistenza. La frase, quindi, va interpretata come una riflessione amara e accorata sulla complessità delle scelte morali in situazioni estreme e sulla difficoltà di mantenere la propria integrità in contesti di assoluta straordinarietà esistenziale.
Noi dobbiamo interpretare la frase come una critica esplicita alla retorica eroica e alla glorificazione della morte per la patria singola, quale essa sia, mettendo invece in primo piano il valore della vita umana, intesa come parte unica della comunità vivente universale.
Per Cassola, antimilitarista e antinazionalista (anche se “patriottico”), l’occhio per occhio tra tribù nazionali e nazionalistiche non ha alcun senso, quando è in ballo la sopravvivenza stessa del genere umano, quando da qualsiasi “bit di conflitto” può scatenarsi l’escalation della guerra mondiale unificata, che può degenerare in catastrofe nucleare.
Per cui la considerazione di Gandhi l’avrebbe pienamente accettata: “Occhio per occhio, tutto il mondo diventa cieco”.
Se siamo antimilitaristi nonviolenti, non dobbiamo cedere alla logica dell’occhio per occhio tra tribù umane, ma guardare ai conflitti dal punto di vista dell’umanità, schierati dalla parte della pace, che è sempre migliore di qualsiasi “bella” e “giusta” guerra.
Soprattutto dobbiamo essere consapevoli e convinti, per noi stessi e per gli altri, che non usare la violenza non significa rassegnarsi a subire l’oppressione. Questa è una falsa dicotomia che equipara erroneamente la nonviolenza con la passività e la sottomissione. In realtà, la nonviolenza è una forza attiva e potente che offre diverse strategie per resistere all’oppressione senza ricorrere alla violenza fisica.
La nonviolenza non è passività. È una forma di azione, sicuramente molto impegnativa e rischiosa, che richiede coraggio, disciplina e creatività.
La storia dimostra che la nonviolenza può essere estremamente efficace nel contrastare l’oppressione e promuovere il cambiamento sociale e politico. Esempi significativi includono la liberazione dell’India dall’impero coloniale inglese, il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, la lotta contro l’apartheid in Sudafrica e le rivoluzioni nonviolente in diversi paesi dell’Europa orientale.
La nonviolenza si basa sulla forza morale e sul potere del popolo unito alla ricerca di verità e giustizia. Quando un gran numero di persone si impegna in azioni nonviolente, può esercitare una pressione enorme sull’oppressore e costringerlo a cedere.
La nonviolenza non è una resa all’oppressione, ma una forma potente di resistenza attiva che offre diverse strategie per contrastare l’ingiustizia e promuovere il cambiamento. Richiede coraggio, creatività e impegno, ma può essere estremamente efficace nel raggiungere obiettivi di giustizia, libertà e pace.
Equiparare la nonviolenza alla passività significa non comprendere la sua vera natura e il suo potenziale trasformativo. La storia ci mostra che la nonviolenza può essere una forza molto più potente della violenza nel costruire un mondo più giusto e pacifico. Di questo dobbiamo essere profondamente convinti prima di giustificare come necessitate le reazioni violente di questo o quell’attore politico. Soprattutto quando possiamo evitare una identificazione simbolica del tutto incongrua con esso.
ESSERE DALLA PARTE DEGLI OPPRESSI SENZA RIPROPORRE LA LOGICA DELL’OPPRESSIONE
La nonviolenza è intrinsecamente dalla parte degli oppressi. Non è una posizione neutrale o equidistante, ma una scelta di campo a favore di chi subisce ingiustizia e violenza. Tuttavia, è importante chiarire cosa significa concretamente questo “essere dalla parte degli oppressi” nel contesto della nonviolenza.
La nonviolenza offre agli oppressi una via per liberarsi dall’oppressione senza cadere nella spirale della violenza. La violenza, infatti, spesso perpetua il ciclo di oppressione, generando nuove forme di odio e risentimento. La nonviolenza, invece, cerca di rompere questo ciclo attraverso:
- Resistenza attiva: La nonviolenza si manifesta attraverso diverse forme di azione diretta nonviolenta, come proteste, manifestazioni, scioperi, boicottaggi e disobbedienza civile. Queste azioni mirano a smascherare l’ingiustizia, esercitare pressione sull’oppressore e creare spazi di cambiamento.
- Costruzione di alternative: La nonviolenza non si limita alla protesta, ma si impegna anche nella costruzione di alternative concrete all’oppressione. Ciò può includere la creazione di comunità solidali, lo sviluppo di economie alternative e la promozione di modelli di convivenza pacifica.
- Trasformazione del conflitto: La nonviolenza non mira semplicemente a sconfiggere l’oppressore, ma a trasformare il conflitto in una dinamica costruttiva. Cerca di aprire spazi di dialogo e negoziazione per raggiungere soluzioni giuste e durature che tengano conto dei diritti di tutte le parti coinvolte.
È importante sottolineare che la nonviolenza non si preoccupa solo della liberazione degli oppressi, ma anche della liberazione dell’oppressore dalla sua stessa oppressione. L’oppressore, infatti, è imprigionato in un sistema di potere che lo corrompe e lo disumanizza. La nonviolenza cerca di risvegliare la sua coscienza e di offrirgli una via d’uscita dalla logica dell’oppressione.
La nonviolenza cerca altresì di liberare lo stesso oppresso dalla logica del potere oppressivo. La liberazione nonviolenta esige dall’oppresso uno sforzo per diventare degno della propria liberazione, proprio come dimostrò Gandhi con il suo rifiuto dell’intoccabilità e della separazione tra indù e musulmani. Questo sforzo si manifesta su diversi livelli:
1. Auto-trasformazione e purificazione interiore:
Gandhi credeva che la lotta per la liberazione esterna dovesse andare di pari passo con una lotta interiore per la propria purificazione morale. Questo significava:
- Rifiutare l’odio e la vendetta: Anche di fronte alla violenza e all’ingiustizia, l’oppresso deve sforzarsi di non cedere all’odio e alla vendetta, che perpetuerebbero il ciclo di violenza.
- Coltivare l’amore e la compassione: La nonviolenza si basa sulla forza dell’amore e della compassione, anche verso l’oppressore. Questo non significa giustificare l’oppressione, ma cercare di trasformare il cuore dell’oppressore attraverso la forza della verità e dell’amore.
- Vivere secondo i principi di verità (Satya) e nonviolenza (Ahimsa): Gandhi considerava questi principi come la base di una vita degna e la forza motrice della satyagraha, la sua forma di resistenza nonviolenta.
2. Superamento delle divisioni interne:
Come occorre sottolineare, Gandhi si oppose fermamente all’intoccabilità e alla separazione tra indù e musulmani. Questo perché:
- L’unità è forza: Un popolo diviso è più vulnerabile all’oppressione. Superare le divisioni interne, basate su caste, religioni o altre differenze, è essenziale per costruire un fronte unito contro l’oppressore.
- Coerenza morale: Non si può lottare per la propria liberazione se si nega la libertà agli altri. Combattere l’ingiustizia subita e allo stesso tempo perpetuarla verso altri gruppi è una contraddizione che mina la credibilità e la forza morale del movimento di liberazione.
- L’intoccabilità come forma di violenza: Gandhi vedeva l’intoccabilità come una forma di violenza strutturale, che umiliava e discriminava milioni di persone. Rifiutarla era quindi un atto di coerenza con il principio di nonviolenza.
3. Assunzione di responsabilità:
La liberazione nonviolenta richiede che l’oppresso si assuma la responsabilità della propria situazione e non si limiti a subire passivamente l’oppressione. Questo significa:
- Riconoscere la propria dignità: L’oppresso deve riconoscere la propria dignità umana e rifiutare di essere trattato come un oggetto o un essere inferiore.
- Agire per il cambiamento: La liberazione non è un dono che viene dall’alto, ma un processo che richiede l’impegno attivo dell’oppresso.
- Essere disposto al sacrificio: La lotta nonviolenta può essere difficile e rischiosa. L’oppresso deve essere disposto a sopportare sofferenze e sacrifici per raggiungere la liberazione.
4. Educazione e consapevolezza:
La nonviolenza richiede un alto grado di consapevolezza e di educazione. L’oppresso deve:
- Comprendere le dinamiche dell’oppressione: Capire come funziona il sistema oppressivo e quali sono le sue strategie di controllo.
- Conoscere i principi e le strategie della nonviolenza: Acquisire conoscenze e competenze per mettere in pratica azioni nonviolente efficaci.
- Diffondere la cultura della nonviolenza: Promuovere i valori della nonviolenza nella propria comunità e nella società.
La liberazione nonviolenta, in conclusione, non è un processo passivo, ma richiede un impegno attivo e consapevole da parte dell’oppresso. Questo impegno si manifesta attraverso l’auto-trasformazione, il superamento delle divisioni interne, l’assunzione di responsabilità e la diffusione della cultura della nonviolenza. L’esempio di Gandhi, con la sua lotta contro l’intoccabilità e per l’unità tra indù e musulmani, dimostra chiaramente come questo sforzo sia essenziale per raggiungere una liberazione autentica e duratura.